Durante un’intervista rilasciata nel 2002 dall’allora Segretario della Difesa degli Stati Uniti d’America Donald Rumsfeld, il suddetto, nel tentativo di giustificare l’imminente intervento bellico della sua nazione in Iraq, presentò una peculiare teoria della conoscenza.
Disse ai giornalisti che lo circondavano che l’essere umano può trovarsi in tre diverse situazioni gnoseologiche rispetto agli oggetti dell’esperienza: esistono cose che sappiamo di conoscere (ad esempio, io so di avere ventisette anni), cose che sappiamo di non conoscere (ad esempio, non conosco l’esatto numero dei volumi che compongono la mia libreria, ma sono consapevole di non saperlo), e infine cose che non sappiamo nemmeno di non conoscere, oggetti che esulano del tutto dal nostro reame conoscitivo. Con questo terzo termine Rumsfeld si riferiva, con fare leggermente paranoico, all’ipotetica presenza di devastanti armi di distruzione di massa nei bunker e nelle fabbriche di Saddam Hussein.
Il filosofo sloveno Slavoj Zizek ha fatto notare come, se si possiede una minima predisposizione al calcolo strutturale, sia facile individuare una fallacia piuttosto evidente nel ragionamento del rappresentante dell’esercito a stelle e strisce. O meglio: una mancanza. Rumsfeld infatti dimentica il quarto termine di paragone: ciò che noi non sappiamo di conoscere, e cioè i nostri pregiudizi silenziosi, le categorie interpretative inconsce che determinano, strutturano e impongono il nostro comportamento. Ogni giorno noi esperiamo quello che ci circonda e lo interpretiamo: diamo un giudizio che ingenuamente riteniamo essere verace e oggettivo, ma che in realtà è marchiato a fondo dal retaggio culturale e ideologico di appartenenza.
Un esempio lampante della difficoltà di liberarsi dalle catene del nostro implicito bagaglio ideologico-culturale ci è dato dalle cronache che narrano dei primi contatti che i conquistadores spagnoli ebbero con le popolazioni della Mesoamerica (termine inventato dallo storico Paul Kirchhoff per indicare l’area culturale dell’America centrale), agli albori di quella Età Moderna che viene convenzionalmente separata dal precedente periodo del Medioevo sulla base degli enormi cambiamenti che le grandi scoperte geografiche determinarono.
Nel 1519, successivamente alle numerose spedizioni di Cristoforo Colombo, quando era ormai certo che la zona dell’entroterra dello Yucatan fosse stata densamente popolata, il condottiero Hernán Cortés iniziò a disobbedire agli ordini che gli venivano impartiti dalle alte sfere del governo iberico, scendendo sulla terra ferma e iniziando ad inoltrarsi tra la fitta vegetazione della zona. È in questo contesto che avvennero i primi scontri campali con piccoli gruppi di guerrieri maya, i quali vennero sbaragliati grazie alla superiorità tecnologica degli esploratori, che avevano a loro disposizione archibugi, cannoni, armature e spade in ferro. Da questo momento in poi gli autoctoni, terrorizzati dai cavalli degli spagnoli, si rifiuteranno categoricamente di affrontare gli invasori in ampi scontri campali. Venne compiuto atto di sottomissione a Cortés, il quale ricevette in dono una ventina di donne maya, tra le quali spiccherà per arguzia Malinche, un personaggio misterioso capace in breve tempo di trasformarsi in un prezioso interprete naturale al servizio del condottiero.
L’8 novembre, dopo un faticoso avanzare, le truppe spagnole raggiunsero la città di Mexico-Tenochtitlan, la capitale dell’impero azteco ormai in decadenza, governata dal regnante Montecuhzoma. Il soggiorno iniziò nel migliore dei modi, ma dopo pochi mesi all’iniziale collaborazione diplomatica si sostituirono dei rapporti sempre più freddi, e alla fine gli spagnoli furono costretti a barricarsi all’interno di un palazzo nobiliare, prendendo Montecuhzoma come ostaggio.
Quando, il 30 giugno, quest’ultimo venne ucciso in circostanze poco chiare, la rivolta degli aztechi esplose in tutta la sua tragicità. I sudditi dell’assassinato, in grande superiorità numerica, assaltarono con furia il palazzo, e le truppe di Cortés furono costrette ad una rocambolesca sortita. In quella che verrà ricordata come la “noche triste” i soldati spagnoli combatterono all’arma bianca nei vicoli della città, nel tentativo disperato di aprirsi un varco per la sopravvivenza, e soltanto un centinaio di uomini riuscì ad attraversare la laguna che circondava la città, raggiungendo così la salvezza nella boscaglia. La leggenda narra che Cortés, insieme ai pochi superstiti, pianse accovacciato sotto a un grande albero, prima di continuare la ritirata.
A raccontare l’accaduto, in una serie di lettere inviate direttamente a Carlo V (che era solito affermare che sul suo regno non tramontasse mai il sole), sarà proprio il militare spagnolo, il quale in effetti rappresenta la prima e più autorevole fonte riguardo quello che accadde.
Successivamente a questo traumatico evento, dopo una veloce riorganizzazione, gli spagnoli inizieranno l’assedio della città, che capitolerà il 13 agosto. Seguirà la conquista dell’intera zona, e l’arrivo dei primi missionari cattolici. Il Viceregno della Nuova Spagna, il primo di una lunga lista, verrà istituito da Carlo V nel 1535, ergendosi sopra il corpo agonizzante della civiltà azteca.
Inizia in questo modo l’assoggettamento delle genti mesoamericane, coadiuvato dal tentativo, compiuto in primis dai missionari cattolici, di interpretare e comprendere la religione e le credenze degli aztechi. È proprio in questo contesto che avremo la possibilità di notare l’incapacità europea di spogliarsi delle proprie categorie gnoseologiche, di liberarsi dai pregiudizi inconsci e dalla griglia interpretativa della cultura d’appartenenza.
Innanzi tutto, ciò che più salta all’occhio è l’atteggiamento implicito di assimilare l’Altro ai vecchi nemici: gli spagnoli cominciarono infatti a chiamare gli aztechi “il Gran Cairo”. Dal punto di vista degli esploratori, dei primi regnanti e dei missionari, la colonizzazione delle Americhe viene vista quindi come una sorta di prosecuzione della Reconquista della penisola iberica.
A questo primo errore conoscitivo se ne affianca un altro, quello che porta alla cristianizzazione di un contesto che in realtà non aveva nulla a che vedere con quello europeo. I missionari iniziarono ad utilizzare termini (come: “idolo”, “idolatria”, “diavolo”, “sacrificio”, “altare”, “Papi”, “tempio”) che nell’episteme azteca non avevano alcuna valenza, alcun significato. Essi non descrivono, ma piuttosto prescrivono.
Questa cristallizzazione, questa paralisi dello sguardo etnografico, la ritroviamo anche nelle azioni di Cortés, che cominciò sistematicamente a vietare i culti autoctoni, confiscando i codici e chiudendo le scuole e i luoghi di culto. Nelle parole del condottiero notiamo l’annullamento della complessità di ciò che descrive: le vaste e variegate caratterizzazioni della religione azteca vengono sostituite col termine unico di “idolo”. Cortés si impegnò in una strenua lotta contro l’idolatria dei mesoamericani, proibendo soprattutto l’uso delle statue, diffusissime nei vari centri abitati che circondavano Mexico-Tenochtitlan. Nelle carte che ci sono pervenute egli si domanda meravigliato come possano gli indigeni non capire che le statue vegetali non siano le divinità in carne ed ossa. Il condottiero propone questa interpretazione perché non ha la capacità di pensare un contesto altro, del tutto avulso dalle categorie religiose europee. In poche parole egli utilizza una griglia interpretativa di un mondo del tutto altro da quello pre-messicano, è portato a questo sforzo della ragione per una necessità di razionalizzazione che non trova una risoluzione soddisfacente.
Ciò che avvenne in quei primi turbolenti decenni di dominazione spagnola fu, in conclusione, l’attuazione di un processo di dominazione basato sulla distruzione delle immagini dell’Altro, sull’eliminazione dei suoi “idoli”. L’indigeno viene continuamente banalizzato e disumanizzato, e questa demonizzazione viene perseguita a volte in modo del tutto intenzionale, ma spesso anche involontariamente: i pregiudizi e le categorie conoscitive dei colonizzatori agiscono implicitamente, inconsciamente.
Alla stessa maniera di Rumsfeld, Cortés e i suoi collaboratori (in primis i missionari e i cronachisti) vedono la realtà da un punto di osservazione che è proprio della cultura che a loro appartiene. Guardano gli oggetti dell’esperienza tramite delle lenti che distorcono la realtà, le lenti della loro ideologia, dei loro pregiudizi, delle loro strutture interne. Non sono consapevoli di aver inforcato questi occhiali, e proprio per questa motivazione incappano in fenomenali abbagli interpretativi.
Questa tendenza etnocentrica e relativistica causò la distruzione quasi completa dell’identità e della cultura dei nativi paleo-messicani, così come le fissazioni americane di 500 anni dopo determineranno gli orrori e le incomprensioni della seconda guerra del Golfo.
Tutto ciò ci ricorda, ancora una volta, della difficoltà di fondare un sapere neutro ed oggettivo. Forse giungere ad una costruzione gnoseologica tale è del tutto impossibile, ma bisognerebbe almeno tentare, e i prodromi di questo tentativo si possono rintracciare nella capacità di guardare dentro di noi, per cercare di comprendere i nostri bias cognitivi.
Alessandro Gaetani